“Il cinema in psicoterapia”: i tre incontri in breve
Questa settimana abbiamo terminato la nuova serie di incontri di “Cinema in psicoterapia” al Caffè letterario di Lecce, a cura del Dr. Giorgio Colopi, mandati fra l’altro anche in diretta sulla pagina Facebook di Fragments. E in questo articolo ripercorreremo e commenteremo in breve i vari argomenti che abbiamo discusso fra i tre film visti: “Her”, “Ed ora parliamo di Kevin” e “La verità è che non gli piaci abbastanza”.
Attenzione, ci tengo a precisare che il contenuto di questo articolo è riferibile ad una mia rielaborazione personale delle serate, questo vuol dire che i pensieri qui sotto riportati possono essere o non essere affini ai messaggi originali che sono stati discussi, trattandosi di quello che ho personalmente recepito ed elaborato. Per un confronto a 360 gradi ed oggettivo, oltre ad un mio breve commento sono integrati per ogni serata i video integrali delle dirette.
Chi è Giorgio Colopi?
Ho avuto il piacere di conoscere Giorgio Colopi nel corso del mio secondo anno di studi, mentre frequentavo il corso di Psicologia clinica. Durante le lezioni ci venne proposto di provare gratuitamente a partecipare a degli incontri di gruppo sulla psicoterapia ed io ed alcuni miei amici decidemmo di prendervi parte.
Effettivamente l’approccio intrapreso dal Dr. Colopi è piuttosto sui generis: la sua formazione specialistica è nel campo della gestalt, ma il suo approccio terapeutico si fonde con diverse forme di espressione artistica e su una “concezione incorporata della coscienza”.
In parole povere, è impossibile trattare di coscienza o di psicoterapia se non si considera in quale maniera la nostra mente interagisce con il nostro corpo, sia in un verso che nell’altro. Alcuni dei suoi strumenti e orientamenti, sulla base di tale concezione, sono la psicofisiologia clinica, le arti-terapie e l’approccio bio-esistenzialista.
Ho avuto poi modo di reincontrare Giorgio a distanza di qualche mese quando ha iniziato i suoi incontri di cinema in psicoterapia (ben prima che aprissi Fragments), e per tutti i suoi incontri particolarmente partecipativi lui ha cercato di infondere negli spettatori uno sguardo un po’ più clinico a fronte delle scene che si susseguivano sullo schermo, per provare a renderli quasi “psicoterapeuti per un giorno”.
Come approcciarsi agli incontri
All’inizio di ogni incontro di cinema in psicoterapia vanno preparati quattro spazi di pensiero fondamentali per gli spettatori, siano essi presenti dal vivo o a casa:
- Una visione di tipo fenomenologico. Tanto spesso dipingono psicologi e psicoterapeuti come gli interpreti numero uno della situazione, esempio clamoroso quello dei film dove il problema è sempre colpa di una “relazione travagliata con la madre che ora trova sfogo in un’aggressività”, tutto questo passando per numerose interpretazioni di simboli fallici.
In realtà pochi sanno che l’interprete primario della situazione è il cliente, che portando la sua visione rappresenta un mondo che di per se non possiede autonomamente i significati che gli vengono assegnati.
Se una persona mi dice “ciao” mi ha detto “ciao”, il fatto che poi dietro quel ciao ci siano mille significati diversi sono interpretazioni create dal soggetto che riceve il ciao, o assegnati da chi lo utilizza.
Allora il punto numero uno fondamentale è “approcciarsi con attenzione alle scene in maniera fenomenologica”: no al “cercare doppi significati o complicazioni estreme”, sì al cercare invece di analizzare le cose in maniera il più oggettiva possibile, in particolare per quel che riguarda i movimenti del corpo. No ad esempio a “Lei è chiaramente attratta da lui”, sì a “Il suo corpo è chiaramente teso verso di lui”. - Dalla visione fenomenologica viene quasi spontaneo poi connettersi anche ad un pensiero non giudicante. In Her il protagonista è uno sfigato perchè ha una relazione con un computer? E nella seconda dibattutissima scena chi sbaglia, lui o la ragazza con cui ha l’appuntamento? E in “E ora parliamo di Kevin” chi è il vero mostro, Kevin o la madre? E gli uomini sono tutti “stronzi” come passa velatamente in “La verità è che non gli piaci abbastanza”?
Queste domande non ci interessano affatto, perchè lo psicologo non è il padre spirituale al quale è richiesto un giudizio etico o un consiglio. E queste cose gli sono indifferenti, anzi, è addirittura dannoso esprimersi in merito. Prendere una posizione netta in relazione a questi dubbi al contrario è un ottimo modo per creare dagli ostacoli sulla strada per il benessere del cliente. - Un’occasione per riflettere sulle proprie esperienze. Quello che vediamo negli incontri di cinema in psicoterapia non necessariamente corrisponde alla realtà e tipicamente riguarda una situazione molto circoscritta e singolare. Questo non vuol dire che i significati che passano non possano essere ampliati e letti con lo strumento della metafora. Se in “Her” la difficoltà primaria è quella della comunicazione che presenta il protagonista nei confronti delle persone a cui tiene, diventa evidente come si apre la strada della riflessione sulle proprie reali relazioni di coppia, sul nostro stato di evoluzione e ricezione in relazione al nostro partner.
- Un’occasione di aprirsi a prospettive diverse. Questo cozza completamente col punto precedente, ma la capacità del terapeuta sta in questo: stare in parte nella visione del cliente e in parte nella visione esterna, per poter comprendere ma anche fornire nuove interpretazioni alle situazioni portate in terapia.
All’interno di alcuni incontri ci sono stati momenti in cui alcune persone avevano una enorme difficoltà a pensare che le cose viste nel film si potessero verificare davvero, o ad entrare nell’ottica dei personaggi. Psicologi e psicoterapeuti entrano continuamente a contatto con situazioni enormemente tragiche e sono “addestrati” a comprendere che il mondo è molto più vario di quello che ci si presenta nelle quattro mura fra le quali ci spostiamo nella nostra vita quotidiana.
E quando questo non è sufficiente è fondamentale che lo psicologo sappia abbandonarsi nell’abisso della “possibilità”, perchè, non muovendoci su certezze, in nessun caso è possibile escludere a prescindere delle situazioni.
1. “Her”: il cinema in psicoterapia fra comunicazione ed evoluzione della coppia
Il primo incontro di Cinema in psicoterapia è stato sul film “Her”. Di cosa si tratta in breve? Il film parla della storia di un uomo che dopo aver interrotto il rapporto con la moglie inizia una paradossale storia d’amore con il suo nuovo Sistema Operativo, una tecnologia avanzata che si adatta alle sue esigenze ed interagisce con lui esattamente come farebbe un essere umano. In questo scenario alla “Black Mirror” (di cui non faccio altro che parlarvi su Facebook e del quale ben presto arriveranno i miei post commenti!) ciò che fa da padrone è il blocco comunicativo del protagonista, che in nessun caso riesce ad esprimere chiaramente cosa non va, piuttosto preferisce non esprimersi per deresponsabilizzarsi parzialmente dai suoi pensieri.
In queste interazioni mancate che si verificano prima con la ex-moglie, che al contrario presenta un atteggiamento quasi aggressivo per ottenere una qualsivoglia risposta, e poi con lo stesso Sistema Operativo che inizia a replicare i suoi comportamenti di “assenza presente”, il tema portante è quello dell’evoluzione del sistema coppia. Se si seguono aspettative positive, il superamento dell’illusione dell’infatuazione e la rivelazione dell’altro nella sua integrità, con tutte le difficoltà e delusioni che ne derivano, dovrebbero portare a nuove modalità adattive da entrambi i lati, modalità che permettono poi la comparsa dell’intimità, della complicità e soprattutto del prendersi cura. E’ inutile dire che le cose non vanno sempre così, e in Her il protagonista non riuscirà a disilludersi in nessun caso, rompendo le sue relazioni al momento in cui queste si avvicinano alla seconda fase.
2. “E ora parliamo di Kevin”: il cinema in psicoterapia e la complessità del rapporto madre figlio
La seconda serata di cinema in psicoterapia si è preannunciata devastante già a partire dalla prima, con Giorgio che esplicitamente sconsigliava a tutti di venire se non se la sentivano di affrontare una cosa del genere. Il film in questione è “E ora parliamo di Kevin”, un film tragico che racconta la storia di Kevin, un bambino che cresce in un rapporto ambiguo e aggressivo con la madre, condizione che lo porterà poi a diventare uno psicopatico.
La tragedia di Kevin comincia fin dai primi momenti di vita, quando nasce come “errore”. Nella prima scena è già evidente come la madre non accolga bene la sua presenza, con l’infermiera che le dice “Non opporre resistenza Eva”, quasi come se inconsciamente la madre si opponesse al parto. E subito dopo la nascita tantissimi pianti e una Tilda Swinton (l’attrice che interpreta Eva, la madre) sconvolta per il cambio introdotto nella sua vita.
Nel film sono visibili numerose dinamiche riferibili a tante condizioni di disagio nello sviluppo: Eva ce la mette tutta ma in qualche modo sembra essere troppo concentrata sul suo ruolo di madre perfetta per eseguirlo spontaneamente come andrebbe fatto. Nella relazione fra Kevin e Eva manca l’onestà, manca la spontaneità e soprattutto manca l’affetto; condizioni che ancor più sono messe in evidenza dall’atteggiamento disconfermante del padre di Kevin verso la moglie, tendente a minimizzare ogni comportamento negativo del figlio e a leggere ogni sensazione della moglie come un’esagerazione. Nessuno dei due riesce ad essere sufficientemente genitore da gestire lo sviluppo del figlio, Eva troppo presa dal suo ruolo di madre perfetta irraggiungibile e il marito assente troppo impegnato a rappresentare un amico per il figlio.
E’ interessante in questo film come due teorie di Winnicott (al quale ho anche accennato nell’articolo sulla storia della psicologia delle mamme) ci permettano di capire cosa manca in questa relazione:
- Una madre sufficientemente buona alla quale non è richiesta la perfezione ma un istinto materno e una presenza adeguata.
- L’handling e l’holding, il naturale flusso di affetto che va dalla madre al bambino attraverso il contenimento delle angosce del bambino (holding) e il maneggiamento e il contatto fisico nei suoi confronti (handling).
Insomma, non è sufficiente che il bambino sia nutrito, come rilevato da Harlow il bambino ha bisogno anche di affetto, e, per quanto Eva faccia il possibile per essere una buona madre, nelle scene selezionate si percepisce sempre un distaccamento invisibile ma chiaramente sentito fra i due personaggi.
3. “La verità è che non gli piaci abbastanza”: il cinema in psicoterapia fra gioco di seduzione e individualità nella coppia
La terza serata di cinema in psicoterapia si basa su un film che già di per se nasce per rispondere all’esigenza di migliaia di persone sulla terra: ma effettivamente cosa vogliono dire i messaggi provenienti dai membri dell’altro sesso? E perchè non riesco a trovare l’uomo ideale?
Sulla scorta di queste idee un bel giorno i futuri sceneggiatori di “Sex and the City” scrivono un libro su come funziona la comunicazione nei “rituali di accoppiamento umano”. E da questo libro nascerà l’esempio pratico in forma video: la verità è che non gli piaci abbastanza.
All’interno del film si intrecciano diverse storie ricollegabili a tante situazioni diverse tipiche della coppia: Gigi cerca il suo principe azzurro ma, come discusso nel corso della serata, il principio problematico sta proprio nella ricerca del principe azzurro. Infatti non esiste l’uomo perfetto e Gigi ingenuamente finisce per ricadere sempre negli stessi errori con gli uomini che conosce, i quali si approfittano della sua “inesperienza”.
A tirarla fuori dalla situazione ci penserà Alex, il nuovo amico che inizierà ad insegnarle come funzionano realmente le relazioni e il gioco di messaggi, di ambiguità e non detti che si sviluppano fra uomo e donna.
Dall’altro lato una serie di relazioni già formate passano situazioni burrascose: in una scena una coppia litiga perchè lei desiderebbe il matrimonio, mentre lui è contrario a quest’ultimo; dall’altro lato una coppia sposata affronta delle difficoltà quando lui viene sedotto da una ragazza, ma fa il possibile per non cadere in tentazione.
All’interno delle coppie il problema è diverso: non si tratta più di capire i messaggi del gioco di seduzione, ma imparare a distinguere fra se stessi e la coppia. E’ vero, un problema della coppia è anche un problema delle persone che la compongono, ma perdere la propria individualità in funzione di un tutt’uno vuol dire non affrontare i problemi in maniera funzionale e allo stesso tempo disconoscere le componenti alla base del tutt’uno.
Il tema portante di tutta l’opera è l’individuarsi: si è disposti ad essere altro, a mettersi da parte e anche a subire delusioni o dipendenze “tossiche”, e tutto questo per “l’altro”, sia all’interno della coppia già formata che nella coppia nascente. Ma quando veniamo prima noi? Un rapporto positivo con noi stessi e la nostra soddisfazione sono il primo punto di uno sviluppo positivo, si tratti di una relazione nascente che una ormai consolidata.
In conclusione
Questo viaggio nel mondo del cinema in psicoterapia si è concluso per il momento. E io spero che torni (possibilmente quando sarò ancora qui in zona per potervi partecipare). Mi piace concludere ricordando che lo psicologo deve vedere quanti più film, serie tv e leggere tanti più libri che può. Perchè sono queste ricostruzioni della vita di tutti i giorni che ci permettono di riflettere sui contesti e sulle costruzioni di senso che sono fatte da ognuno di noi. Nel frattempo vi do appuntamento presto agli articoli su Black Mirror e vi chiedo: e voi? Quali film secondo voi andrebbero approfonditi?